E’ la malattia a farti accorgere di cosa sia la salute. Quando il corpo non risponde, duole, si accascia, fatica. Ti affatica. Quando ti senti uno straccio e la vita “di prima”, quella normale, quella routinaria di cui ci lamentiamo tutti, è lontana e ti chiedi seriamente se tornerà ancora. La malattia ti fa smettere di “esistere” (parola desueta che significa “andare fuori”, andare per il mondo, così come sottolinea il prefisso latino “e- ex”, moto verso luogo) perché l’unico luogo frequentato è la sala di aspetto di qualche centro medico. Per la Medicina Tradizionale Cinese la salute è movimento mentre la malattia è stasi, ristagno, stagnazione, immobilità: e quanto tragicamente lo consapevolizzi nel momento in cui ti ammali, quando anche i pensieri cambiano ritmo, si fanno rarefatti, densi, vischiosi. Tutto rallenta, inceppato, incantato, cristallizzato. Sono poche le forze e molte le paure, anche l’anima e lo spirito si sono frantumati. Ti dicono”devi avere cura di te” ma cosa vuol dire? Chi ci cura? E dove? Che ci serve per guarire?

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Il primo effetto dell’essere malati è lo spaesamento che provoca la frattura nel senso di controllo, nella padronanza di sé, nello sviluppo inteso come progressione lineare e continua verso l’alto che in natura non esiste ma che il mondo di oggi invece predica come l’unica traiettoria esistenziale significativa, verso la quale tutti cerchiamo di uniformarci. Il presente si fa incerto, figuriamoci il futuro. In ospedale si sta poco, gli interventi vanno bene e ci si ritrova dimessi con gli esami a posto. E non è poco. Eppure si sta male. Eppure non è finita. Il corpo è stato ferito per essere curato, necessariamente insultato da procedure molto invasive anche se salvifiche. Il corpo, come nel mio caso, è stato mutilato. E soffre, per quel che sta patendo ma anche perché ricapitola tutte le ferite, i traumi e i colpi inferti. Il mio corpo è un cimitero. Mi dicono che sto bene, che sono forte, che tutto è andato per il meglio. Ma io ho male, la carne soffre, non ho forze, e anche la mia anima si mette a piangere, anche se me ne vergogno. Le poche indicazioni che la medicina umana offre a chi deve affrontare un percorso di convalescenza e recupero non procurano sollievo, non danno riparo alla lacerazione interiore che si sperimenta. La medicina è tecnica, taglia, cuce e ripara, a volte sostituisce le parti, cerca di correggere i malfunzionamenti, e concentrata su questa impostazione meccanicistica tralascia il fatto che il corpo è anima-to, è affettivamente investito, è intreccio energetico, psichico e spirituale. La medicina quando si è ormai fuori degli ospedali e quando i parametri vitali tornano in asse, diventa una medicina dis-umana. E tu rimani solo. Non sei più quella di prima. Non lo sarai mai più, hai un corpo diverso e abbrutito, che più o meno funziona eppure tu non stai bene. Ecco. E’ esattamente a questo punto della prova che ti accorgi che ti hanno curato ma tu adesso devi guarire. La prova non è finita e capisci che devi prenderti cura di te: ho imparato che dopo che sei sopravvissuto poi devi decidere se vivere o morire, se rifiorire in una forma che nell’attualità è sconosciuta e sembra impossibile o stagnare nella paura, nella depressione, nella lamentela, nella rabbia della recriminazione.

La malattia non è un fatto, non è solo un sintomo o una sindrome, impone di sintonizzarsi con la sofferenza che è oltre il dolore, adottando una posizione trasgressiva e rivoluzionaria, in assoluta controtendenza, eversiva dell’ordine capitalistico e consumistico: stare fermi, in silenzio e in ascolto di sé. Concentrati sulla propria parte fragile e frangibile, quindi proprio su ciò che la cultura imperante considera esecrabile, una falla, un difetto di fabbrica che solo gli sfortunati o i deboli hanno, su cui tutti distolgono lo sguardo congedandoti frettolosamente “vedrai che tutto è passato e adesso starai bene”. Nessuno ti avvisa che succederà questo, nessuno ti prepara all’esperienza della malattia come ferita dell’anima. E questo disorienta, non sai dove sbattere la testa per stare meglio. Tutti ti dicono di riposare. Importante, vero, ma tu senti che non basta. Ti dicono di prenderti cura di te: questa è un’espressione abusata e quindi ci pare di riconoscerla ma è ben presto evidente che l’accezione con cui viene comunemente dispensata non ci aiuta per niente. Perché rimanda ai mille messaggi pubblicitari che ci incitano allo sforzo mostruoso di mantenere la linea, lisciare le rughe, ridurre la cellulite, sbiancare i  denti o coprire la ricrescita dei capelli, depilarsi e scolpire gli addominali. Tutte azioni spacciate per irrinunciabili che rincorriamo per rimanere giovani e belli e desiderabili. Perché stare bene significa quello, essere desiderati. La cura di sé è una condanna all’approvazione dello sguardo altrui e la salute viene spacciata come assenza di inestetismi ed elevate performance psicofisiche: quella “cura di sé” non ci aiuta. Non ci serve. Mi fa sempre di più incazzare.tempImageBGhX3D

La prima lezione è proprio questa: stare fermi, ben piantati in ascolto del malessere. Guardarsi, soffermarsi con attenzione ai dettagli del presente, alle maledizioni che si stanno attraversando, ai vuoti densi di noia e preoccupazione ma anche di invidia e di rabbia. Fermarsi ed accettare che si è malati, avere premura per questo nostro inedito stato di bisogno, perché la cura può sorgere soltanto nel momento in cui cominciamo a dare importanza a quello che sentiamo, percepiamo, desideriamo. A quello che siamo in questo momento.

Nella vita io mi occupo delle persone che, in diverso modo, soffrono. Ho seguito la vocazione che fin da bambina mi suggeriva di prendermi cura di chi stava male, includendo animali e, da un po’ di tempo, anche le piante. La mia malattia, le mutilazioni che negli ultimi anni il mio corpo ha dovuto subire, hanno raffinato la compassione e la volontà di accompagnare chi attraversa un dolore mentale, che qualche volta è una patologia psichica, a volte è un trauma esistenziale e a volte è il risvolto psicologico di una malattia fisica. Ma è soprattutto su questa questione che trovo ci sia molto da dire, e da fare. Perché viviamo in una cultura che ci fa credere che sia possibile l’invulnerabilità, mangiando i giusti alimenti, facendo sport regolarmente, assumendo integratori e affiliandosi alla chiesa del “Think positive”. Sii prestante e indomito e vivrai da superman e wonderwoman. Invece la malattia arriva, capita, si manifesta e attraverso le ferite del corpo spesso filtra il dolore di traumi precedenti, che si credevano superati o sepolti. Si fa largo l’impotenza, la debolezza, la fragilità. Un colpo, sperimentare la malattia oncologica, ma anche un aborto, la diagnosi di una malattia cronica, un infarto. La vita non è più quella di prima e il mondo si vede diversamente. Non si è più quelli di prima, non lo si sarà mai più, ma allora chi si è? La malattia intacca la personalità, quindi il senso profondo del nostro essere e del nostro esistere: abbiamo la responsabilità di una nuova nascita, di una ri-generazione. Solo che non sappiamo come attuarla. Ed è in quella crepa che m’interessa entrare. Perché lì inizia il viaggio doveroso verso la Guarigione, che passa attraverso la scoperta di noi stessi e la valorizzazione della nostra umilissima, personalissima e meravigliosa cifra esistenziale ed umana, imparando a guardare con amorevolezza alla nostra interezza perché i sintomi non possono essere risolti solo nel corpo. Lì, inizia la strada per attivare dentro di noi il nostro Guaritore interno. Ecco che la malattia diventa occasione (ma è anche necessità!!!) di curare la nostra vita.

Nel suo splendido testo “La speranza è un farmaco” (Mondadori, 2018), il dott. Fabrizio Benedetti, uno tra i massimi esperti mondiali dell’effetto placebo, spiega come prima le erbe e più tardi i farmaci, anche gli psicofarmaci, riescano ad agire perché disponiamo di una complessa farmacia interna (neurotrasmettitori, ormoni e peptidi) che si è evoluta a partire dagli albori dell’umanità sulla base della relazione interpersonale, unico strumento ci cui nelle caverne si disponeva per “curare” i membri della comunità e vederli più adattivi. La specie umana è stata dotata dalla natura di un sistema che è in grado di inibire il dolore, fisico e mentale, un sistema naturale attivato in svariate circostanze, compresa l’interazione personale volta al sostegno. Parole e farmaci hanno stessi effetti e stessa azione, agiscono sui medesimi circuiti neurofisiologici. “Visto che nel corso dell’evoluzione sono nate prima le parole, e poi i farmaci!, è più corretto dire che i farmaci attivano gli stessi meccanismi delle parole” scrive nel libro. Se usate in modo inappropriato le parole possono essere tossiche, e produrre danni: ansia, depressione, sconforto, trauma. Ma dal momento che possono influenzare lo stato mentale e corporeo di chi le ascolta ( e di chi le pronuncia) possono essere usate anche come potente mezzo di cura. La psicoterapia è un mezzo efficace per elaborare l’esperienza, per ascoltare le emozioni, dando valore anche a quelle di cui ci vergogniamo, per avere sostegno ma anche consiglio. Accettare ciò che è mutato sciogliendo rabbie e invidie, perché ci sono, è così. Perdonare e perdonarci. Far germogliare la gratitudine, perché senza quella non ci sarà rinascita. La psicoterapia dà vita ad una relazione affettiva molto profonda e dedicata proprio alla nostra cura. E’ il mio mestiere, è una vita che mi formo con dedizione a questo compito. So che è un aiuto prezioso e concreto ma mi sono accorta che raramente viene consigliata. Anche in oncologia: io ho dovuto chiedere il mio spazio, inizialmente l’unico ove poter depositare tutta la paura che avevo e che non volevo mostrare in famiglia, con gli amici e naturalmente con i miei pazienti. Da un po’ di tempo rifletto sulla scarsa attenzione al vissuto delle persone che affrontano percorsi medicali travagliati: interventi chirurgici complessi, malattie oncologiche, traumi ortopedici, infarti, la PMA e la PCOS, le interruzioni volontarie di gravidanza e gli aborti spontanei, i parti complicati. E’ raro che il medico invii alla psicoterapia. Ciò mi ha sempre stupito e amareggiato ma da paziente, devo dirlo, mi ha fatto imbestialire. Perché quando ricevi una diagnosi, hai bisogno SUBITO, la vita va in pezzi subito. E dopo un intervento anche l’anima è spezzata. E la relazione psicoterapeutica è un aiuto ed una cura immediata, un unguento medicamentoso che da subito inizia a guarire. I pazienti devono saperlo, devono essere inviati e devono  essere subito aiutati. Perché ogni rivista parla delle rughe e della cellulite e non di questo? Perché continuiamo a colludere con questo sistema che finge che la malattia non esista? Che un corpo riparato comporti sempre immediato benessere? Perché non chiediamo a gran voce che si parli della Vita e non dei consigli per gli acquisti? La malattia scombussola le carte e le priorità si ridefiniscono. Adesso dobbiamo guarire. Per farlo la psicoterapia non basta, altrimenti non sarebbe una rivoluzione.

Sicuramente, guarire significa dedicarsi ad imparare meglio l’arte di Amare, prima di tutto noi stessi  costruendo dentro di noi un “posto sicuro”. Coltivando il progetto di non restare dove non c’è amore e di onorarci con impegno attraverso gesti solleciti e delicati. Tutte le relazioni affettive della nostra vita vanno sottoposte al vaglio, a saggiarne la qualità e il livello di tossicità. Abbiamo la responsabilità di allontanare chi ci fa del male e di far fiorire i rapporti con chi ci ama e ci sostiene. L’amore è un farmaco potente, un nutriente fondamentale senza il quale non possiamo vivere bene. Dobbiamo avere il coraggio di contattare le emozioni autentiche che sono dentro di noi, poi esprimendole infine cercando di dare loro soddisfazione. Molte persone non ne sono più capaci ed hanno bisogno di un certo periodo di allenamento: io uso le tecniche espressive, strumenti e mezzi che ci permettono di aggirare il controllo e l’autorità spesso castrante della mente razionale, per arrivare alle nostre vere riserve emotive, il forziere aureo che contiene il dolore ma anche il segreto della guarigione. Le artiterapie, l’uso dello scrapbooking, la fotografia, il canto ed il ballo. Anche la tarologia, il ricorso ai simboli ed alla mente intuitiva. La creazione di quotidiani rituali di protezione e amorevolezza che sono tali quando accendiamo l’intenzione amorevole e attenta, quando portiamo consapevolezza al nostro obiettivo di cura e facciamo convergere a quello tutte le nostre azioni. La mente ha bisogno di riti, li crea da migliaia di anni, sono uno strumento per gestire fasi e stati emotivi disorganizzanti, per incanalare le energie psichiche, per rassicurarci, mettere ordine, affinare la concentrazione su obiettivi, consapevolizzare il legame invisibile che ci interconnette al tutto. Possiamo ricorrere a riti che persone o libri ci insegnano ma è bene crearne di nostri, personali. Perché non sappiamo più ascoltarci e non sappiamo che cosa desideriamo, ciò che ci serve per stare bene. Ma è questa la cura di sè: questa è la riattivazione del Guaritore interno. Ci va un impegno serio, uno spazio di ascolto quotidiano e di sperimentazione. Ma ci va una rivoluzione, quella di zittire un pochino la mente razionale. Camminare nella natura, osservare in silenzio, sentire cosa proviamo, ricordare, onorare i talenti trascurati. Passeggiare col cane e giocare. Ascoltare musica e cantare. Fare ciò che si rimanda da tempo. Ognuno ha il compito di trovare la sua via, il suo farmaco dello spirito e la sua medicina dell’anima, liberandosi del dolore interiore, che troppo spesso attanaglia da tempo.

Calmare la mente razionale e predisporci all’ascolto è più facile quando si impara a meditare e si prende l’abitudine e l’impegno di farlo diventare una pratica, ovvero un comportamento quotidiano. Esistono migliaia di pubblicazioni scientifiche sull’efficacia e la potenza curativa delle diverse forme di meditazione, facilmente reperibili anche in rete. Qui mi interessa sottolineare un beneficio che immediatamente apporta, che riguarda la creazione di uno spazio “sacro”, nella sua accezione etimologica di “separato”, dove ci fermiamo e portiamo consapevolezza e quello che proviamo, cercando centratura e radicamento in presenza di qualunque umore ed emozione. Ci allena a costruire calma , significato, gratitudine nonostante tutto: il nostro luogo sicuro interiore.tempImageEFWckA

Non credo che le malattie vadano combattute: credo vadano curate e sono fermamente convinta che gentilezza e amorevolezza siano la risposta alla sofferenza. Tutti le tecniche cosiddette olistiche si occupano della persona nella sua interezza e possono essere usate con grandi benefici. Sicuramente l’agopuntura, basata su una medicina, quella Tradizionale Cinese, non solo sdoganata ampiamente dalla medicina ufficiale, ma utile anche da un puto di vista simbolico, perché centrata sul concetto di ri-equilibrio e di armonia tra le energie che ci compongono, direzionata sul corpo inteso in accezione energetica e non tanto somatica, che lega indissolubilmente materia, psiche e spirito.  Risvegliare le emozioni e la mente intuitiva, la voce interiore sono posizioni psichiche che possono essere sollecitate dall’utilizzo dei Fiori di Bach (Bach sottolineò come la salute ha a che fare con la capacità di ciascuno di essere fedele a sé stesso e creò il complesso sistema floriterapeutico affinché ogni possa potesse curarsi risvegliando proprio il Guaritore interno), dalla cristalloterapia, dalla musicoterapia e dal teatro. Tutte le tradizioni spirituali e l’abitudine alla preghiera sono alleati imprescindibili nella costruzione della nostra salute. La cura di sé è la cura di ogni nostra parte, di ogni istanza interna in conformità al nostro personale progetto di sviluppo e crescita.

Guarire diventa percepire come la fragilità di un corpo malato, che ha perso la perfezione che ci raccontano essere misura del valore, è invece ancora pieno di meraviglia e ci consente di sperimentare la meraviglia del mondo e della vita. Diventa l’esperienza di scoprire lo scrigno di risorse dentro di noi ma soprattutto di seguire i desideri segreti, abbandonando ciò che credevamo indispensabile e invece è solo pesante. E a questo proposito buttare via letteralmente un po’ di cose dalla casa e dagli armadi ha un suo perché. Mettere ordine, fare pulito, lasciare spazio al nuovo, appassionarci a ciò che verrà. “Crescere è discendere” insegnava lo Psicoanalista Hillmann, è immergerci profondamente in noi stessi per poter realizzare la nostra impronta speciale, processo che Jung chiamava “individuazione”, ovvero la realizzazione di noi stessi come “individui”, esseri unici ed irripetibili, un processo creativo, a volte tortuoso, che dura tutta la vita e procede in tutte le vicissitudini che ci riguardano. Anche nella malattia. Non mi dite che non è facile: facile o difficile è caratteristica che non ci deve interessare o preoccupare. Chiedetevi se vale la pena, se volete vivere o morire, se avete anche una minuscola curiosità di vedere chi siete veramente. Vi aspetto, se mi vorrete al fianco nella vostra rivoluzione, piena di esperienza. Buona guarigione a tutti noi.

“Non c’è presa di coscienza senza sofferenza. In tutto il mondo la gente arriva ai limiti dell’assurdo per evitare di confrontarsi con la propria anima. Non si raggiunge l’illuminazione immaginando figure di luce, ma portando alla coscienza l’oscurità interiore. Chi guarda fuori sogna, chi guarda dentro si risveglia” (C.G. Jung)

 

 

 

Barbara Alessio
Psicologa, Psicoterapeuta, Psicodiagnosta, Master di II° livello in Bioetica è Responsabile del Servizio di Psicologia e Psicodiagnosi della Casa di Cura per malattie neuropsichiatriche “Villa di Salute” di Trofarello (TO). Riceve in studio privato a Torino.
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